venerdì 20 giugno 2008

IL CARCERE NON E' PER LE DONNE

di Nicoletta Salvemini

Desidero partire da uno dei principi fondamentali della nostra costituzione: il principio di uguaglianza. Quello che nel primo comma dell’art. 3 afferma che tutti sono uguali senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e personali (principio di uguaglianza formale) e che nel secondo impegna la repubblica a rimuovere gli ostacoli sociali ed economici al fine di rendere effettiva l’uguaglianza (principio di uguaglianza sostanziale).
L’uguaglianze sostanziale in buona sostanza ha svolto e continua a svolgere una funzione correttiva del principio di uguaglianza formale al fine di garantire il pieno sviluppo della persona.
Ora, come non vedere tra gli ostacoli quelli che la donna in quanto soggetto femminile patisce nella struttura carceraria? Dire che le donne sono uguali agli uomini a prescindere dall’essere donna significa fermarsi alla titubanza, alla cautela del primo comma e non leggere nella forza e prorompenza del secondo, la garanzia di un’eguaglianza sostanziale basata sul riconoscimento effettivo, reale, naturale della differenza sessuale. Se la differenza tra i sessi è la prima delle differenze nell’umanità, quella su cui tutte le altre si costruiscono, la libertà personale è la prima tra le libertà naturali e inviolabili riconosciute dal nostro ordinamento e sulle quale tutte le altre libertà –individuali e sociali- si modellano.
Come coniugare quindi la differenza di genere all’interno del carcere, luogo dove di quella libertà si è private? Questo è l’interrogativo che Caterina e le altre si sono poste e ci pongono.
Ed è su questo terreno che dobbiamo confrontarci senza cedere alla tentazione di spostare l’asse della discussione sull’ideologia destra/sinistra, questo cedimento tradirebbe lo spirito di questa iniziativa.

La presenza qui di Silvia Baraldini non testimonia il terrorismo ma quello che il terrorismo, con l’istituzione delle carceri speciali, ha prodotto sul corpo di una donna. Le detenute politiche, come la Baraldini, avevano proposto negli anni 80 un’immagine della trasgressione diversa da quella tradizionale perché avevano sovvertito l’ordine sociale e non la sfera domestica. Non dimentichiamo che se oggi le donne vanno in carcere prevalentemente per reati connessi agli stupefacenti, le prime detenute agli inizi del 900 erano meretrici, vagabonde, traviate che andavano rieducate all’interno di istituzioni religiose o assistenziali. La trasgressione femminile all’epoca era letta come amoralita’ più che come illegalità e come tale agita. Chi, come Silvia Baraldini, ha rifiutato il ruolo femminile tradizionale ha pagato prezzi altissimi ( 23 anni di detenzione). A quello doppio delle detenute comuni ( quell’in più in quanto donna) si è aggiunto per lei il sovrapprezzo del terrorismo. Il carcere, come tutti i luoghi dove si esercita potere, ha una struttura maschile che non conosce il corpo femminile: le mestruazioni, la menopausa, la maternità vengono imprigionate. E quando la questione femminile è entrata in carcere ciò è accaduto solo per tutelare i figli piccoli della madre detenuta e non per pensare e agire un trattamento penitenziario differente per la detenuta in quanto donna (proprio in questi giorni la sentenza di condanna definitiva a carico di Annamaria Franzoni ripropone il problema delle madri detenute).

La presenza, inoltre, sul nostro territorio, di poche carceri femminili, fa sì che molte detenute vengano trasferite in penitenziari lontani dalla residenza familiare, rendendo la separazione dagli affetti maggiormente traumatica. E ancora. Le donne ( appena il 5% dell’intera popolazione carceraria)sono detenute prevalentemente per reati connessi agli stupefacenti. In questi reati il tasso di recidiva è molto alto e ciò indica non solo che il ritorno in carcere non ha interrotto il precedente modus vivendi, ma soprattutto che la pena detentiva, per queste donne, non ha svolto alcuna funzione se non quella di infliggere una sofferenza fine a se stessa. Può sembrare paradossale ma il fine rieducativo della pena (fine previsto dall’art. 27 della Costituzione ma mai e per nessuno e nessuna perseguito) presuppone una significativa permanenza in carcere. In definitiva, per dirla con Caterina in estrema sintesi, il carcere non e’ per le donne. Non c’è da stupirsi dal momento che sappiamo che il sapere con le sue leggi e interpretazioni è stato modellato al maschile.

Anche l’ordinamento penitenziario, leggendo la storia della detenzione femminile, risente di questa parziale visione del mondo. Il soggetto intorno al quale minori e donne vengono definiti è il maschio adulto: e’ lui il soggetto imputabile per la legislazione penale. Donne e minori costituiscono l’eccezione al modello e vengono accomunati nel concetto di soggetti deboli: la debolezza dei minori è non essere adulti, quella delle donne non essere uomini.
E in ossequio a queste debolezze - che altro non sono che diversita’- è stato costruito un regime sanzionatorio, ma prima di esso un regime giuridico, ispirato alla tutela del soggetto debole.
La conferma ci viene osservando l’evoluzione della normativa penitenziaria.
Dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 alla legge Gozzini del 1986 fino ad arrivare alla legge 8 marzo 2001 intitolata “ Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori. Con questa legge vengono introdotte
a. la detenzione speciale domiciliare (art. 3) b. l’assistenza esterna dei figli minori (art. 5).
Pur recando tale legge una data simbolica ( 8 marzo, appunto) notiamo che paradossalmente non si è guardato alla popolazione carceraria femminile con sguardo femminile.Difatti, fra le condizioni di ammissione alle misure, vi è

1. la non sussistenza di un concreto pericolo di reiterazione del delitto
2. la sussistenza di una concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli minori degli anni 10 condizioni queste inconciliabili con i reati connessi agli stupefacenti e alla prostituzione che rappresentano un alto tasso di recidiva e di cui sono incriminate la maggior parte delle detenute madri. Inoltre il regime sanzionatorio del 416bis, (cui sono sottoposte le detenute protagoniste del film) esclude l’applicazione dei benefici.

In definitiva, le misure alternative per loro pensate non ci sono e non ci possono essere.

Per finire. La riflessione sulla differenza di genere nelle carceri ci interroga sul nesso eguaglianza-differenza.
Pensare la differenza come un incontro senza dominio, come relazione nella diversità interroga le molte donne che oggi dirigono istituti penitenziari, lavorano come agenti o educatrici a contatto con le detenute e soprattutto le donne giudici di sorveglianza. Donne che si muovono in una struttura maschile con modalità di relazioni basate sul potere.
Rivisitare l’eguaglianza affiancando ad essa la differenza di genere significa mettere in relazione, far dialogare, l’astrattezza del principio formale con la materialita’ della situazione concreta. Significa interpretare la norma, un’arte più che un’operazione, in grado di dare altro senso al principio di uguaglianza che non deve funzionare rigidamente ma deve essere capace di rendere eguali nella differenza. Un’interpretazione fatta nella consapevolezza che essa non è il fine da raggiungere ma uno strumento per raggiungere il fine e il fine è essere eguali tra diversi.

Può apparire un ossimoro ma se i termini della comparazione uomo-donna fossero del tutto uguali e non presentassero delle differenze, non ci sarebbe la necessità di stabilirne l’eguaglianza!
La natura ci ha fatto differenti e quindi nell’ interpretare e applicare la norma occorre partire da una verità inconfutabile: nascere donna o uomo preesiste al diritto e alle sue regole.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Aprire un blog su donne e carcere
per un omaggio al lavoro di tre coraggiose, che ci aiutano a guardare dove non possiamo avere occhi!
Bello il lavoro del film e del libro...
MM

Anonimo ha detto...

brava, bel lavoro, bello anche questo spazio

luisa