venerdì 27 giugno 2008

Un plauso!

"Da una reale attenzione alle politiche carcerarie una concreta risposta al sovraffollamento e alla carenza di personale” “Le nostre carceri stanno perdendo, ogni giorno di più, la funzione di strutture disciplinari e la stessa pena ha, per lo più, un ruolo repressivo e incapacitante, che mal si concilia con la politica carceraria della rieducazione”.
È quanto dichiara il consigliere della Regione Puglia e vicepresidente della VII commissione, Affari istituzionali, Antonio Buccoliero, intervenendo alla vigilia della giornata di studio, che si svolgerà a Lecce e che ruoterà attorno alla proiezione del film–documentario “Nella casa di Borgo San Nicola con le donne, nel carcere” di Caterina Gerardi.
“Un plauso – prosegue Buccoliero – va a Caterina Gerardi, che ha saputo indirizzare la sua sensibilità di donna e di operatrice culturale verso la condizione, non certo facile, delle donne negli istituti penitenziari. Purtroppo, i problemi di Borgo San Nicola sono i problemi di tante case di detenzione, che dello status di casa hanno poco o nulla. Il sovraffollamento delle prigioni, che si scontra con la carenza di personale, genera spesso situazioni di insofferenza e di stress psicofisico, che in molti casi sfociano in vere e proprie violenze.
Certamente, la recente proposta di una parte del Governo di introdurre il reato di clandestinità non farebbe che aggravare una situazione già di per sé critica per l’intero sistema carcerario. È necessario, invece, lavorare con più convinzione sulle politiche carcerarie, perché se è vero che ci sono criminali incalliti e pericolosi, che meritano di scontare pene severe, é vero anche che ci sono tanti detenuti che dopo aver scontato la loro pena per reati comuni meritano di avere una seconda possibilità, che spesso viene preclusa dalla stessa cultura carceraria”.
“Senza tralasciare, infine – conclude Buccoliero – l’importanza della polizia penitenziaria, che costituisce un avamposto dello Stato a tutela della sicurezza del cittadino, sia essa chiamata ad operare nel carcere o sul territorio. Non dimentichiamo, infatti, che ogni politica di sicurezza cammina sulle gambe degli operatori, che meritano, pertanto, il pieno e concreto consenso delle istituzioni”.

mercoledì 25 giugno 2008

Intervento al Convegno del 12 giugno 2008

di Sandra del Bene

L’idea iniziale è stata di Caterina che ci ha coinvolto in questo viaggio dentro al carcere per vedere e raccontare la condizione delle donne che trascorrono lì dentro una parte più o meno lunga della loro vita.
La nostra tesi di partenza era che all’interno della struttura penitenziaria il disagio la sofferenza delle donne è più forte, più angosciosa e devastante, soprattutto perchè, come dice una delle intervistate, “il carcere non è per le donne". E ciò secondo me è vero per una serie di motivi e qui vorrei soffermarmi in particolare sui due che ritengo fondamentali.
Il primo motivo di carattere più culturale riguarda il fatto che da sempre possiamo dire dalla sua fondazione, le forme nelle quali si è strutturata la società e quindi il potere, rispondono ad una logica maschile che ignora e non rispetta i caratteri legati alla differenza di genere.
Il funzionamento della macchina dello stato ha sempre operato in ogni paese, in base a meccanismi di controllo che attraverso le “istituzioni totali" hanno tenuto a bada o emarginato ogni forma di diversità e di alterità rispetto al modello dominante di razionalità maschile.
Foucault ha descritto meravigliosamente nelle sue opere la funzione delle istituzioni totali come i manicomi, le carceri, la famiglia, la scuola. Franco Basaglia, David Cooper, Ronald Laing, solo per citare alcuni nomi, hanno già descritto negli anni ‘60 e ’70 con quali strumenti e in quali forme agisce il potere.
Il femminismo poi ha sottolineato la componente maschile di tali meccanismi , la subordinazione totale e la assoluta negazione di ogni aspetto legato alle caratteristiche e alle esigenze delle donne cito solo alcuni nomi come Simone de Beauvoir, Virginia Wolf, tutte le femministe americane, fino ad arrivare alle filosofe contemporanee, alla Libreria delle donne, ai gruppi storici del femminismo italiano ed europeo.
Merito indiscutibile del movimento delle donne è l’aver finalmente svelato e scardinato le fondamenta del potere maschile e dei suoi meccanismi aprendo la strada che ha portato finalmente le donne dentro alle strutture che governano le società.
Ciò dovrebbe portare come conseguenza ad una attenzione maggiore, anche nella strutturazione delle forme di controllo e di organizzazione sociale, verso le differenze di genere e al tramonto definitivo del modello maschile come modello assoluto.
Il secondo motivo è più profondo e legato agli aspetti più strettamente psicologici e simbolici del mondo femminile. L’esistenza delle donne si sviluppa infatti all’interno di una rete molto intricata di relazioni Nei legami affettivi, i rapporti con la madre, il padre, il o i vari partner, i figli, le sorelle, le amiche, i compagni di vita e di lavoro, tutte le figure che attraversano la vita delle donne , si intrecciano in fitte reti di relazioni.
Ora, la vita del carcere, taglia completamente, interrompendole, le maglie di queste reti, lasciando le donne come sospese, staccate “interrotte" rispetto a ciò che più di tutto riempie le loro vite.
E’ un aspetto tangibile, evidentissimo della loro condizione esistenziale che per esempio traspare nelle interviste, dal fatto che più che parlare di sè ciascuna parla di ciò che ha lasciato fuori: figli, mariti, genitori, tutto ciò che è tagliato fuori dalla loro vita.

martedì 24 giugno 2008

il Trust nel Nome della Donna
in collaborazione con
Università del Salento
Museo Sigismondo Castromediano della Provincia di Lecce

per presentare la fase conclusiva del

Concorso Internazionale & Festival Itinerante
di Cinema Indipendente delle donne
(Lecce, 30 giugno - 5 luglio 2008)

Mercoledì 25 giugno, ore 18
Auditorium del Museo Sigismondo Castromediano della Provincia
Viale Gallipoli, 30 - Lecce

Il Concorso & Festival Itinerante: le Intenzioni, i luoghi, gli eventi.

Converseremo con le registe in Concorso, e con
Alina Marazzi

www.nelnomedelladonna.org

lunedì 23 giugno 2008

Esperienze di libertà al femminile - Festival

Il Trust Nel Nome della Donna
in collaborazione con
il Museo Sigismondo Castromediano della Provincia di Lecce

presenta il Concorso & Festival Itinerante di Cinema Indipendente delle Donne

Esperienze di Libertà Femminile
dal 30 giugno al 5 luglio 2008
presso il Museo Sigismondo Castromediano
via Gallipoli 30, Lecce


E’ la prima volta che una giuria popolare di sole donne premia il cinema delle donne, coinvolgendosi con una mobilitazione di energie, passione, tempo, denaro.
A questo importante esito politico si arriverà dopo proiezioni e valutazioni in tutta Italia, nei luoghi delle donne, fra aprile ed agosto 2008; le spettatrici saranno una grande, variegata giuria al cui verdetto è affidata la premiazione dei lavori in Concorso.
La manifestazione conclusiva si terrà alla Masseria Le Sciare, a San Foca, il 23 e 24 agosto.
Ventuno documentari, sette video d’arte, tredici corti, di autrici italiane, francesi, tedesche, cilene, nordamericane, islandesi, inglesi, e due importanti film Fuori Concorso per una grande Festa del Cinema delle donne e della loro esperienza di libertà.

Raccomandiamo alle spettatore di votare tutti i film che vedono, rispondendo così alla disponibilità delle registe che hanno sottoposto alla giuria popolare il proprio lavoro.


Programma
30 giugno lunedì ore 18
B-movie, ragazze in B
, di Silvia Novelli
Francisca, Concetta, Catarina e Maria
, di Vivian Celestino
Le Famiglie Arcobaleno
, di Lucia Stano e Nadia Dalle Vedove
Art. 29 – di Silvia Eleonora Longo

Voci di donne native e migranti
, di Rossella Piccinno

ore 21
Tilt
, del MovingKnickersCollective
Inventata da un dio distratto
, di Marilisa Piga & Nico Di Tarsia
Chiara Carrer
, di Elisabetta Lodoli
Frammenti di libertà
, di Grazia Dentoni
Le Amazzoni
, di Grazia Dentoni
Meio de pesce che d’oio santo
, di Roberta Saccoccio
Una mela al giorno
, di Emanuela Cau
Grazie a tutte!
, di Cristina Comperini

1 luglio martedì ore 18
Ladyfest Grenoble
, di Séverine Rambaud
Storia del movimento femminista in Italia
, di Lorella Reale
ore 21

Il Gioco delle Soluzioni
(The Sorting Game), di Carla Vestroni
L’altro ieri
, di Gabriella Romano
Le inutili coincidenze, di Cristina Savelli
Luci In The Sky
, di Sabrina Mazzuoli
Il nostro sguardo
, di Gisella Bianchi
Fancy, di Eleonora Ievolella
Appunti per un esserci
, di Monica Petracci
Donne contro l’in-differenza
, di Laura Cardone
Il pelo nell’occhio
, di Consuelo Pascali

2 luglio mercoledì ore 18
Reinalda del Carmen, mi mamà y yo
, di Lorena Giachino Torréns
Un’ora di lavoro, cent’anni di bellezza
, di Réjane Kerdaffrec
ore 21

Roska
, di Asthildur Kjartansdottir
La prima volta
, di Antonella Restelli
La luna di Kiev
, di Marcella Piccinini
Rappresentazioni
, di Maria Francesca De Pasquale

3 luglio giovedì ore 18
Venezia – Una donna
, di Anette Von Zitzewitz
The Attack of The Bride Monster, di Vicky Boone
ore 21

Ciò esula
, di Maria Inversi
La Grande Menzogna
, di Carmen Giardina
Lisbonsensible, di Eleonora Ievolella
A cavallo tra i mondi, di Cristina Capone (Sirka)

4 luglio venerdì ore 18
L‘ordine delle stelle
, di Milli Toja 95 minuti - FUORI CONCORSO
ore 21

E’ femmina, no?
, di Silvia Novelli
Split
, di Luki Massa
Questa notte è volata via, di Elisa Bertolotti
La Visita
, di Ester De Miro FUORI CONCORSO
Amelia
, di Chiara Idrusa Scrimieri

5 luglio sabato ore 19
Nella Casa di Borgo San Nicola
, di Caterina Gerardi

Ogni sera, nell’intervallo, sarà a disposizione un buffet.

5 luglio sabato nell’Anfiteatro
ore 20
Grande Cena Finale
ore 21,30
Incontro fra le partecipanti e le registe

per info 335 480143 – 338 6699546 – info@nelnomedelladonna.org
www.nelnomedelladonna.org

sabato 21 giugno 2008

il film

nella Casa di Borgo San Nicola
con le donne, nel carcere un film di Caterina Gerardi
Pensa Multimedia edizioni, 2008

Girato nel carcere femminile di Lecce, questo lavoro – senza prevenzioni e senza indulgenze,
attraverso interviste ed incontri – indaga la vita, le considerazioni, le aspettative e le nostalgie di un gruppo di donne detenute in regime di Alta Sicurezza.
Caterina Gerardi sostiene che: “Il carcere non è per le donne”.

Il film, che è già stato visto in diverse città italiane, fra cui Milano, Torino, Bologna, Roma, Napoli, Catania, Palermo, sarà proiettato prossimamente a:

Lecce sabato 5 luglio ore 19, presso Museo Provinciale Sigismondo Castromediano
Venezia mercoledì 23 luglio ore 20,30 presso la Sala Auditorium del Centro Culturale Candiani
Trieste giovedì 24 luglio ore 21 presso Giardino Androna degli Orti 4/b
Fabro Scalo sabato 9 agosto ore 17,30 presso Terradilei- loc. Farnetico 9

Uno sguardo di donna sulle donne recluse nel circuito di alta sicurezza del carcere di Lecce

di Monica Massari

Prima di arrivare nel 1999 al riconoscimento da parte della Corte di Cassazione della possibilità che le donne potessero far parte pienamente di un’associazione mafiosa, le storie giudiziarie dei clan sono state dense di riferimenti a una sorta di inferiorità – anche nel crimine – delle donne: appiattite sulla figura dell’uomo, strumenti inconsapevoli delle attività dell’organizzazione mafiosa, escluse per definizione dall’appartenenza al sodalizio, vittime della volontà maschile o, caso mai, complici obbligate delle condotte dei propri uomini. E infatti per molto tempo non vi è stato un riconoscimento sotto il profilo giudiziario delle loro eventuali responsabilità. Semmai, l’accusa principale era quella di semplice favoreggiamento.

Fino ai primi anni ’80 del secolo passato le donne, dunque, erano invisibili, apparentemente assenti dalle cronache giudiziarie dei fatti di mafia. E’ solo negli anni successivi che si iniziano a far sentire le prime voci di donne di mafia sulla scena pubblica: in veste di sostenitrici della presunta innocenza dei propri uomini, in un periodo in cui l’esplosione del fenomeno dei pentiti aveva inferto un duro colpo ai clan e innescato una pesante offensiva giudiziaria. Donne che parlano ai giornali, che rilasciano interviste alle reti televisive, che si incatenano davanti ai tribunali. Donne che risultano saper fare un uso accorto delle strategie della comunicazione che si serve dei mass media, proprio per lanciare minacce, per comunicare in codice, per incitare alla violenza. Ma le donne sono anche coloro che vengono ritenute più affidabili nei momenti di emergenza, per conservare il denaro e riscuotere i pagamenti, comunicare fra il carcere – dove si trovano i propri congiunti – e il mondo esterno. Non più e soltanto a ripulire i vestiti macchiati di sangue del proprio marito, figlio o fratello, relegate in cucina a preparare il caffé, o ritratte piangenti dietro ai cortei funebri, ma dotate di competenze specifiche, coinvolte con ruoli di responsabilità negli affari del clan e in grado di offrire il loro pieno appoggio alle strategie dell’organizzazione. Una combinazione efficace fra tradizione e modernità che è risultata particolarmente funzionale agli interessi delle cosche.

Le donne protagoniste del bel documentario di Caterina Gerardi, realizzato con la collaborazione di Sandra del Bene e Rosamaria Francavilla e accompagnato da un volume con saggi e interventi di Silvia Baraldini, Paola Bonatelli, Renate Siebert e Carla Vestroni (Pensa Multimedia edizioni, 2008), ci offre, dunque, un’occasione unica di calarci totalmente, con uno sguardo di donna, all’interno di un universo femminile che è in parte composto – almeno secondo quanto stabilito dall’accusa che le ha condotte in carcere - proprio da quelle donne. Donne, cioè, che si trovano a condividere un’esperienza di reclusione all’interno del circuito di alta sicurezza del carcere di Lecce (la casa di Borgo San Nicola citata nel titolo), perché accusate o condannate per reati gravi, cioè reati associativi. Donne molto diverse per età, cultura, provenienza, professione, situazione familiare, caratteristiche personali che si trovano a con-vivere, a trascorrere un pezzo della propria vita assieme, all’interno di un luogo, di un’istituzione totale che ordina e regola, sin negli aspetti più minuti della normale quotidianità, le loro esistenze.

E lo sguardo delle autrici, delicatamente intenso, ma a tratti drammatico e inquietante, attraverso le parole, gli argomenti che sollecita e affronta, e con le immagini, i suoni che propone, decide di fare una scelta di campo. Una scelta molto coraggiosa, quasi sovversiva - oserei dire - dal momento che sovverte totalmente, scompiglia quelle che sono solitamente le narrazioni e le analisi sul carcere: analisi, appunto, su qualcosa (un luogo fisico, ma anche simbolico), su qualcuno che lì si trova, suo malgrado, ad abitare (i detenuti e le detenute) o a lavorare (il personale penitenziario, gli educatori). Questa prospettiva basata sul ragionare su qualcosa, invece, viene ribaltata, restituendo protagonismo, dando letteralmente la parola a soggetti che solitamente sono costretti entro una dimensione di silenzio, dal momento che la loro condizione li condanna, inevitabilmente - se non con alcune eccezioni – a rimanere muti, afoni, al di fuori, cioè, delle narrative e dei discorsi che pur li riguardano direttamente. Queste donne, invece, parlano, e parlano in prima persona: esprimono le loro ansie, i loro problemi, i timori; raccontano di sé, delle proprie relazioni affettive e familiari, soprattutto dei propri figli, ma anche dei mariti e dei compagni; affrontano questioni complesse legate alla vita all’interno del carcere e alle difficoltà di sopravvivere a essa, mantenendo – come loro dicono - la propria individualità, la propria identità; ma soprattutto queste donne – in alcuni dei passaggi cruciali del documentario - affermano il proprio punto di vista, reclamano i loro diritti, urlano le proprie verità. E buona parte della loro verità riguarda i motivi per cui, alla fine, si trovano a essere protagoniste di questo documentario: l’accusa e, in alcuni casi, la condanna, per associazione mafiosa o associazione finalizzata al commercio di droghe.

Questo ovviamente costituisce un tema centrale attorno al quale le donne protagoniste de La casa di Borgo San Nicola dibattono, si esprimono, spesso con toni molto accesi e alterati. Ovviamente il fatto che queste donne siano o meno colpevoli veramente di quanto la giustizia, i giudici – come dicono loro – gli contestano non è qui oggetto di discussione. Non ritengo, infatti, che sia rilevante stabilire fino a che punto esse siano sincere quando rispondono alla domanda che per prima, proprio all’inizio del filmato, viene rivolta a una di loro e poi, man mano che il documentario avanza, un po’ a tutte: Perché sei qui? Perché siete qui? Forse, invece, ciò che colpisce maggiormente è la rappresentazione che esse forniscono della realtà, della loro realtà – una realtà schizofrenica, ma anche drammatica e totale, - e le modalità attraverso cui esse costruiscono e decostruiscono continuamente le cause e i significati della loro condizione di reclusione e di separatezza a seconda dei contesti e delle necessità.

«Sono succubi, vittime o sono attive?» chiede Caterina Gerardi alla direttrice del carcere nel corso del colloquio riportato nel film. Il processo di emancipazione femminile unitamente alla maggiore scolarizzazione e all’acquisizione di professionalità proprie hanno avuto senz’altro un peso rilevante, riflettendosi nel cambiamento del ruolo assunto dalla donna all’interno dell’universo criminale, come diverse ricerche condotte negli ultimi quindici anni (soprattutto da studiose donne) hanno chiaramente indicato. Ma è possibile parlare di un vero e proprio ruolo di comando? Sono numerosi i casi in cui le donne sembrano svolgere compiti di responsabilità all’interno dei clan. E il carcere (o, in altri casi, la latitanza dei propri uomini) costituisce, a ben vedere, uno dei fattori scatenanti del passaggio delle donne a un ruolo più diretto nella gestione e partecipazione alle attività dell’organizzazione criminale. E qui si comprende – riprendendo un passaggio del film– perché esse non vengano quasi mai arrestate assieme ai propri compagni, figli o fratelli. Esse diventano l’elemento di raccordo fra il dentro e il fuori, messaggere delle istruzioni da impartire all’esterno, collettrici dei profitti illeciti, amministratrici di alcune attività, consigliere ascoltate nei momenti di difficoltà, quasi sempre quando gli uomini sono impossibilitati a farlo. E’ alle donne che viene delegato il potere in assenza degli uomini: anche se poi bisogna vedere se si tratta – come notano alcune - di una delega temporanea o di un potere riconosciuto e legittimato.

Parliamo, dunque, di un universo sociale, culturale, famigliare profondamente maschile, sessista, orientato fortemente verso un sostanziale anti-egualitarismo e che si evidenzia particolarmente nel rapporto con le donne e il femminile in generale, come ben evidenzia Renate Siebert in uno dei saggi raccolti nel volume che accompagna il documentario.

Sarebbe stato interessante ascoltare che cosa queste donne pensano della mafia….Ma ancor di più, ritengo che sarebbe stato interessante ascoltare che cosa esse pensano dei rapporti fra i sessi, al di là della dimensione familiare e di quella degli affetti che le coinvolge più direttamente…E ancora: come si rappresentano i processi di emancipazione femminile in un contesto di modernità liquida, in divenire, qual è quello in cui ci troviamo a vivere?… E soprattutto, anche alla luce delle parole estremamente efficaci pronunciate da Silvia Baraldini nel corso del documentario, quale strategia, quale contributo queste donne possono apportare affinché la condizione di shock anestetizzante prodotta dal carcere sulla sfera più profonda della propria esistenza fisica, psichica ed emotiva possa tramutarsi anche in capacità di azione, in una strategia di mutamento, in forme di partecipazione?

«Il carcere crea mostri» afferma amaramente una delle protagoniste….e non può che essere così nel momento in cui l’assenza o l’insufficienza di tutta una serie di percorsi di sostegno o di ri-socializzazione è lampante rispetto alla finalità prioritaria della cosiddetta “sicurezza sociale”, cioè della reclusione e dell’internamento che produce poi un’inevitabile disumanizzazione, un’umiliazione profonda destinata a nutrire unicamente un senso di disfatta se non, in alcuni casi, di vendetta. “Lo stato delle prigioni riflette il livello i democrazia di un Paese”, ci ricorda ancora Silvia Baraldini, ed è da qui che a mio avviso occorre ripartire, proprio perché la negazione di alcuni diritti fondamentali – l’istruzione, la salute, il lavoro retribuito – altro non fa se non annullare totalmente la possibilità che possa avvenire un superamento della visione del carcere nei termini di una vera e propria morte civile.

venerdì 20 giugno 2008

IL CARCERE NON E' PER LE DONNE

di Nicoletta Salvemini

Desidero partire da uno dei principi fondamentali della nostra costituzione: il principio di uguaglianza. Quello che nel primo comma dell’art. 3 afferma che tutti sono uguali senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e personali (principio di uguaglianza formale) e che nel secondo impegna la repubblica a rimuovere gli ostacoli sociali ed economici al fine di rendere effettiva l’uguaglianza (principio di uguaglianza sostanziale).
L’uguaglianze sostanziale in buona sostanza ha svolto e continua a svolgere una funzione correttiva del principio di uguaglianza formale al fine di garantire il pieno sviluppo della persona.
Ora, come non vedere tra gli ostacoli quelli che la donna in quanto soggetto femminile patisce nella struttura carceraria? Dire che le donne sono uguali agli uomini a prescindere dall’essere donna significa fermarsi alla titubanza, alla cautela del primo comma e non leggere nella forza e prorompenza del secondo, la garanzia di un’eguaglianza sostanziale basata sul riconoscimento effettivo, reale, naturale della differenza sessuale. Se la differenza tra i sessi è la prima delle differenze nell’umanità, quella su cui tutte le altre si costruiscono, la libertà personale è la prima tra le libertà naturali e inviolabili riconosciute dal nostro ordinamento e sulle quale tutte le altre libertà –individuali e sociali- si modellano.
Come coniugare quindi la differenza di genere all’interno del carcere, luogo dove di quella libertà si è private? Questo è l’interrogativo che Caterina e le altre si sono poste e ci pongono.
Ed è su questo terreno che dobbiamo confrontarci senza cedere alla tentazione di spostare l’asse della discussione sull’ideologia destra/sinistra, questo cedimento tradirebbe lo spirito di questa iniziativa.

La presenza qui di Silvia Baraldini non testimonia il terrorismo ma quello che il terrorismo, con l’istituzione delle carceri speciali, ha prodotto sul corpo di una donna. Le detenute politiche, come la Baraldini, avevano proposto negli anni 80 un’immagine della trasgressione diversa da quella tradizionale perché avevano sovvertito l’ordine sociale e non la sfera domestica. Non dimentichiamo che se oggi le donne vanno in carcere prevalentemente per reati connessi agli stupefacenti, le prime detenute agli inizi del 900 erano meretrici, vagabonde, traviate che andavano rieducate all’interno di istituzioni religiose o assistenziali. La trasgressione femminile all’epoca era letta come amoralita’ più che come illegalità e come tale agita. Chi, come Silvia Baraldini, ha rifiutato il ruolo femminile tradizionale ha pagato prezzi altissimi ( 23 anni di detenzione). A quello doppio delle detenute comuni ( quell’in più in quanto donna) si è aggiunto per lei il sovrapprezzo del terrorismo. Il carcere, come tutti i luoghi dove si esercita potere, ha una struttura maschile che non conosce il corpo femminile: le mestruazioni, la menopausa, la maternità vengono imprigionate. E quando la questione femminile è entrata in carcere ciò è accaduto solo per tutelare i figli piccoli della madre detenuta e non per pensare e agire un trattamento penitenziario differente per la detenuta in quanto donna (proprio in questi giorni la sentenza di condanna definitiva a carico di Annamaria Franzoni ripropone il problema delle madri detenute).

La presenza, inoltre, sul nostro territorio, di poche carceri femminili, fa sì che molte detenute vengano trasferite in penitenziari lontani dalla residenza familiare, rendendo la separazione dagli affetti maggiormente traumatica. E ancora. Le donne ( appena il 5% dell’intera popolazione carceraria)sono detenute prevalentemente per reati connessi agli stupefacenti. In questi reati il tasso di recidiva è molto alto e ciò indica non solo che il ritorno in carcere non ha interrotto il precedente modus vivendi, ma soprattutto che la pena detentiva, per queste donne, non ha svolto alcuna funzione se non quella di infliggere una sofferenza fine a se stessa. Può sembrare paradossale ma il fine rieducativo della pena (fine previsto dall’art. 27 della Costituzione ma mai e per nessuno e nessuna perseguito) presuppone una significativa permanenza in carcere. In definitiva, per dirla con Caterina in estrema sintesi, il carcere non e’ per le donne. Non c’è da stupirsi dal momento che sappiamo che il sapere con le sue leggi e interpretazioni è stato modellato al maschile.

Anche l’ordinamento penitenziario, leggendo la storia della detenzione femminile, risente di questa parziale visione del mondo. Il soggetto intorno al quale minori e donne vengono definiti è il maschio adulto: e’ lui il soggetto imputabile per la legislazione penale. Donne e minori costituiscono l’eccezione al modello e vengono accomunati nel concetto di soggetti deboli: la debolezza dei minori è non essere adulti, quella delle donne non essere uomini.
E in ossequio a queste debolezze - che altro non sono che diversita’- è stato costruito un regime sanzionatorio, ma prima di esso un regime giuridico, ispirato alla tutela del soggetto debole.
La conferma ci viene osservando l’evoluzione della normativa penitenziaria.
Dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 alla legge Gozzini del 1986 fino ad arrivare alla legge 8 marzo 2001 intitolata “ Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori. Con questa legge vengono introdotte
a. la detenzione speciale domiciliare (art. 3) b. l’assistenza esterna dei figli minori (art. 5).
Pur recando tale legge una data simbolica ( 8 marzo, appunto) notiamo che paradossalmente non si è guardato alla popolazione carceraria femminile con sguardo femminile.Difatti, fra le condizioni di ammissione alle misure, vi è

1. la non sussistenza di un concreto pericolo di reiterazione del delitto
2. la sussistenza di una concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli minori degli anni 10 condizioni queste inconciliabili con i reati connessi agli stupefacenti e alla prostituzione che rappresentano un alto tasso di recidiva e di cui sono incriminate la maggior parte delle detenute madri. Inoltre il regime sanzionatorio del 416bis, (cui sono sottoposte le detenute protagoniste del film) esclude l’applicazione dei benefici.

In definitiva, le misure alternative per loro pensate non ci sono e non ci possono essere.

Per finire. La riflessione sulla differenza di genere nelle carceri ci interroga sul nesso eguaglianza-differenza.
Pensare la differenza come un incontro senza dominio, come relazione nella diversità interroga le molte donne che oggi dirigono istituti penitenziari, lavorano come agenti o educatrici a contatto con le detenute e soprattutto le donne giudici di sorveglianza. Donne che si muovono in una struttura maschile con modalità di relazioni basate sul potere.
Rivisitare l’eguaglianza affiancando ad essa la differenza di genere significa mettere in relazione, far dialogare, l’astrattezza del principio formale con la materialita’ della situazione concreta. Significa interpretare la norma, un’arte più che un’operazione, in grado di dare altro senso al principio di uguaglianza che non deve funzionare rigidamente ma deve essere capace di rendere eguali nella differenza. Un’interpretazione fatta nella consapevolezza che essa non è il fine da raggiungere ma uno strumento per raggiungere il fine e il fine è essere eguali tra diversi.

Può apparire un ossimoro ma se i termini della comparazione uomo-donna fossero del tutto uguali e non presentassero delle differenze, non ci sarebbe la necessità di stabilirne l’eguaglianza!
La natura ci ha fatto differenti e quindi nell’ interpretare e applicare la norma occorre partire da una verità inconfutabile: nascere donna o uomo preesiste al diritto e alle sue regole.

ESTETICA E FILOLOGIA DI UN CARCERE

di Elisabetta Liguori

“Potrà in futuro esistere una società senza carcere?”

Questo interrogativo, assieme ad altri dallo stesso derivati, serpeggiava tra i sussurri della sala di Torre del Parco destinata alla giornata di studio sul tema delle “donne in carcere” il 12 giugno scorso. È passato qualche giorno, ma gli accenti di quella giornata intensa mi risuonano ancora nella testa.

Tutto è cominciato con la pubblicazione di un film reportage e di un saggio scritto per la Pensa Multimedia e la piena realizzazione di un progetto voluto fortemente da Caterina Gerardi, Rosamaria Francavilla e Sandra Del Bene. Tre donne dai grandi occhi.

Da quello tutto il resto. Il bisogno di approfondimento. Il passa parola. L’inquietudine. Donne che incontrano altre donne prima, poi tutto il resto, come spesso accade. Perché le donne spesso segnano l’inizio di grandi trasformazioni. Da queste donne in carcere, in particolare, sono derivate Immagini, reazioni forti, legami, polemiche, dubbi, buoni e cattivi propositi.

Ma veniamo a questa giornata intensa, dunque.

Moltissime le donne in sala, sin dalla mattina. Tra le presenti all’inizio s’è insinuato il sospetto che si potesse finire per parlarsi addosso. Le donne diffidano delle altre donne. Si sa. S’agitavano, si salutavano cortesi ma sospettose, protestano per le sedie scomode, confrontavano abbigliamento e acconciature. Poi, al momento del buio e della proiezione, le immagini hanno avuto il sopravvento su ogni altra resistenza o vezzo. Dopo la visione è scattata istintiva la solidarietà, la riflessione silenziosa. I quesiti.

Tutto questo grazie ad un film che funziona, non v’è stato alcun dubbio a riguardo.

Fortunate le donne che sono riuscite a realizzarlo, incontrando tra le istituzioni coinvolte individui capaci di coglierne a pieno coraggio e potenzialità. Questo film ora c’è, esiste, resisterà nel tempo, possiamo (dobbiamo) usarlo nell’interesse collettivo, a prescindere da quello che sarà il destino futuro delle detenute che ne sono state protagoniste.

Personalmente, sin da subito mi sono resa conto che era valsa la pena far tre giri in macchina intorno all’isolato per trovare un parcheggio e poi decidermi ad acquistare un grattino che valesse l’intera giornata. La proiezione, infatti, ha subito generato tra i presenti un clima d’attesa, un bisogno del tutto rinnovato di capire meglio, di prendere tempo. Di utilizzare il tempo. Qualcuno in sala ha parlato di docu-fiction, facendo riferimento alla dose massiccia di realtà presente nelle riprese ed alla rappresentazione (non finzione in senso stretto) che le detenute della Casa Circondariale di Borgo San Nicola di Lecce sono state capaci di dare di se stesse.

Non una sezione femminile comune, sia chiaro, ma la sezione ad alta sicurezza. Quella senza privilegi. Quella più oscura. Quella che cerca di contenere soprattutto il crimine organizzato, quello più pericoloso.

A distanza di giorni vedo e rivedo lo stesso riverbero nella mia testa. È la forza delle immagini. Le suggestioni visive devono aver avuto lo stesso peso dei suoni per le tre autrici di questo reportage. Tutto è metallico. I colori ghiacciati, i rumori di chiavistello freddo, affiancati alle risate stracciate e grossolane e ai giri di luce solare rappresa in pochi metri quadrati. Ciascuno di questi elementi riesce a dare l’idea della sospensione, dello stop, dello spazio bianco da inventare. Voci che si alternano ad altre voci, voci che sparano, poi frenano, tutte diverse eppure armoniche. Luci omogeneamente espanse dai neon, dentro le quali le detenute intervistate, una per una o tutte insieme, non riescono a nascondersi. Piccoli dettagli di cella, stracci stesi sulle sbarre ad asciugare, rose di pezza in vasi di vetro, ciabatte che si muovono lungo corridoi grigi, unghie laccate di fresco, tatoo dettagliati come affreschi. Il ritmo del racconto offerto nei sessanta minuti di proiezione è alternato, le donne parlano a rotazione, s’inseguono, si sovrappongono, si contraddicono, così da garantire dinamismo e adesione emotiva. Nessun sentimentalismo, sia chiaro, solo malinconia e carattere. È per questo che il film ha funzionato a mio avviso. Ha carattere.

Subito dopo il brusio, tra i presenti e la città con noi, ha preso vita il dibattito. Preliminare l’intervento della sociologa Monica Massari, dell’Università della Calabria. La sua è stata una dettagliata analisi storico-antropologica del crimine organizzato, dagli anni 80 ad oggi, e, soprattutto, dell’evoluzione del ruolo della donna al suo interno. La visione del film aveva punto l’uditorio a questo proposito. Le detenute scelte per il video, con volti duri, mimica serrata e convincente, avevano lamentato una errata percezione del loro ruolo all’interno delle associazioni criminose da parte della magistratura, e il pubblico in sala aveva cominciato a chiedersi che donne fossero quelle: vittime o attrici consapevoli, protagoniste forti o fragili comparse? Normalizzatrici involontarie di contesti famigliari deviati o sostitute determinate ed essenziali? Che legge è quella che le condanna? Quello che la sociologa ha voluto evidenziare partendo dal dato numerico (la statistica ci parla di un più ridotto numero di crimini femminili, trend mai posto in discussione) è stata proprio la differenza di genere, sia fuori che dentro il carcere, e la graduale evoluzione delle forme del crimine stesso nel tempo. L’alta sicurezza, in particolare, è una minoranza nella minoranza, ma una minoranza in evoluzione. Non è mai facile per lo Stato gestire le minoranze, eppure oggi il legislatore ne sta prendendo contezza. Comincia a guardare al futuro. Studia la natura del crimine, le sua particolarità, quanto le sanzioni dovute. La capacità di delinquere delle donne non ha più nulla da invidiare a quella degli uomini. Sarebbe opportuno che le donne stesse lo riconoscessero, anche all’interno di un’esperienza affittiva come quella del carcere, per acquistare maggiore coscienza di sé, delle proprie capacità, per ripartire proprio da quelle, trasformando i propri errori in punti di forza, i propri vizi in qualità. Capacità relazionali, inventiva, creatività imprenditoriale, forza di carattere, verve emotiva. Condizioni da usare non contro la società civile, ma per la società civile. È questo l’unico incipit possibile per un percorso di rieducazione autentica, per il vero reinserimento sociale dei detenuti. La società deve usare la materia di cui dispone al meglio. Deve farlo nel suo interesse. Con questo tipo di consapevolezza personale e con la solidale volontà di istituzioni e della collettività tutta, forse si potrebbe davvero cominciare a parlare di futuro.

Perché il carcere dovrebbe poter costruire il futuro.

Tra i presenti alla giornata di studio, in molti hanno affermato che il carcere, così come è oggi, non è però una istituzione adatta alle donne. Perché non tiene conto delle differenze. Della maggior sofferenza femminile, del tessuto connettivo che si muove intorno ad ogni donna, del suo corpo, della sua natura, dei suoi sensi di colpa. Questa differenza non è discutibile. Dal punto di vista strettamente estetico, le celle delle donne sono diverse da quelle degli uomini. Come ha rilevato con forza anche la rappresentate dell’associazione Antigone, Paola Bonatelli, che da sempre si occupa degli spazi carcerari e della vita al loro interno, il caffè delle donne è sempre sul fornello, i pavimenti sono lisi ma sorprendentemente lindi. Odore di bucato nell’aria, punti di colore sparso, qualche risata. Dal punto di vista comportamentale le donne sono sempre indaffarate in qualcosa, cercano di impegnare fisico e anima, sanno intessere relazioni stabili, creare piccoli gruppi, pur senza sentirsi parte di una categoria in senso ampio, non sono preda di codici fissi, parlano, parlano, parlano, dicono di sé e degli altri, esprimono il disagio, non si adattano, reagiscono e di conseguenza sono indotte a far un uso più massiccio di psicofarmaci.

Esiste un surplus di sofferenza per loro? Sembrerebbe proprio di sì. Perché le donne sono bachi da seta. Lavorano fili, creano legami, costruiscono connessioni e ne sono quindi responsabili. Sempre. In contesti deviati, disgregati, marginali, come nella normalità o nella piena integrazione. È dato storico e culturale incontrovertibile: le donne si curano del mondo, pensano al futuro e in qualche maniera lo partoriscono, anche quando non mettono al mondo figli. Un’esperienza d’interruzione e sosta dolorosa come è il carcere recide dunque tutti quei fili. Punisce e cancella. Priva le donne del loro ruolo, le isola e viola, molto di più di quanto non faccia per gli uomini, scatenando sensi di colpa profondissimi nei confronti dei figli, della famiglia, della casa, dei luoghi abbandonati. E quando parliamo di donne parliamo inevitabilmente di bambini. Di queste appendici. Debito e credito fondante le loro esistenze. Cosicché l’idea di carcere si intreccia con infinite variabili forme d’amore e sofferenza.

Sarebbe dunque giusto pensare ad un carcere femminile diverso? Che sia retributivo, ma anche umano?

O forse ad un carcere diverso per tutti, più in generale?

Ecco il punto dolens dell’intera giornata di studio. Ecco la necessità di approfondimento filologico intorno ai discorsi sulla vita carceraria. A chi giova il carcere? Cosa è il carcere? Come lo si può rappresentare?

Tra le relatrici Silvia Baraldini mi è parsa la più sicura di sé. L’esperienza pregressa e prolungata, presso diversi carceri nazionali e non, ha fatto di lei una donna diversa: lucida, determinata, disinvolta, ed ha reso il suo intervento ancor più pungente, carico di pathos, in qualche modo più spettacolare degli altri, ricco di spunti esotici e internazionali. Miratissimo come un tiro di fonda dritto al bersaglio. Il cambiamento delle carceri in Italia e nel mondo, ha detto Silvia, non può che coincidere con il cambiamento degli stessi detenuti, deve essere opera loro, passare per le loro mani, la loro volontà, senza che questo significhi, ovviamente, rinunciare alla sicurezza sociale che ogni società civile pretende. Nessun paternalismo, quindi, ma riconoscimento di diritti, doveri e potenzialità diversificate. Mai fare delle detenute dei mostri o peggio delle martiri, madri demoniache o inette e addolorate, ma donne. Donne consapevoli. Donne capaci di scelte.

Aldilà delle serena maturità della Baraldini, la giornata di studio del 12 giugno è stata comunque segnata da una giusta inquietudine. Conoscere il carcere, discernere nel carcere, cambiare il senso del carcere. Bilanciare gli interessi giuridici che girano intorno all’istituzione carceraria, oggi più che mai al centro di cronaca e approfondimento. Farlo subito.

Ecco “bilanciare” è il verbo chiave quando si parla di giustizia. Il magistrato di sorveglianza di Lecce, Silvia Dominioni, con il suo intervento finale ha saputo mettere in evidenza, in via di necessaria sintesi conclusiva, proprio questo sforzo estremo e primario.

Il carcere è senza dubbio ultima ratio. È l’ultimo passo di un primo percorso articolato e il primo di uno successivo, ancor più complesso. Il legislatore è attentissimo a questo e di recente sono state compiute molte scelte politiche e giudiziarie del tutto innovative. Forse un maggior coraggio legislativo e l’attribuzione di una maggiore discrezionalità alla magistratura di sorveglianza, così da consentire alla stessa di distinguere caso da caso e decidere di conseguenza (perché la vera democrazia si cela sempre nel rispetto delle differenze) avrebbe giovato, ma gli anni in corso hanno comunque evidenziato una particolare sensibilità pubblica nei confronti delle diverse realtà carcerarie. Eppure il carcere c’è. C’è ancora. Ed è sempre conseguenza di una responsabilità penale personale. Come ogni altro atto giudiziario, è figlio di un equilibrio tra contrapposti interessi di pari dignità. Diritti, giustizia e legge. Il diritto delle vittime e quello del reo. I figli del reo e quelli delle vittime. Il bisogno sociale di sicurezza e quello del recupero di chi ha sbagliato. Il giudice è chiamato a servirsi della legge per mediare e far giustizia. Un compito difficile, che delegittimare o sminuire è un errore, le cui conseguenze potrebbero essere incalcolabili. A ciascuno quindi la sua parte. Donne e uomini. È necessario che ciascuno recuperi il senso del proprio ruolo: che la famiglia educhi, che l’insegnante insegni, che le donne crescano, che l’uomo edifichi, che il magistrato costruisca giustizia ed equilibrio, che la società accolga chi vuole essere fattivamente riaccolto.

Possiamo confermarlo: la proiezione cinematografica del 12 giugno scorso ha funzionato. Ha partorito sogni e incubi. E domande. Molte domande. Il cinema funziona così. In una società ideale in cui ogni ruolo sia inteso come fondamentale, ogni differenza rispettata, ogni bisogno riconosciuto e bilanciato, ogni competenza sviluppata, il carcere potrebbe divenire una scatola inutile. Potrebbe. Ma potrebbe anche non accadere mai. Magari al contrario, senza saperlo, ci muoviamo verso case di costrizione sempre più affollate, odiose, disumane, inevitabili; magari stiamo costruendo con le nostre stesse mani orride sbarre di metallo intorno al nostro universo libero. Magari è così. Sogni e incubi e l’impegno che ne deriva.

Sì, per quel che mi riguarda posso dirlo, il film ha davvero funzionato.