lunedì 18 maggio 2009

«Io, detenuta per 3 ore nel carcere di Bari» di CONCITA LEOZAPPA

<< Io, detenuta per3 ore nel carcere di Bari>> di Concita

Un paio di metri d’altezza per un metro e venti di larghezza circa, le misure della porta di un cancello in ferro. Di un cancello che separa nettamente due dimensioni: quelli che vivono Al di Là, e quelli che vivono Al di Qua. Al di qua del cancello della Casa Circondariale di Bari.

Al di Là, un’umanità che si traduce in cassonetti di immondizia ingombranti, auto in tripla fila invadenti, semafori lampeggianti. Motociclette roboanti, pedoni ansanti, clacson assordanti. Al di Qua, un’umanità. Un’umanità senza fronzoli. Senza accessori. Quella della sezione femminile del carcere di Bari. Valico l’uscio di quel cancello, quella sottile soglia tra una dimensione ed un’altra del vivere, accompagnata da una responsabile.

Attraverso il cortile in piena ristrutturazione e mi accorgo subito che qui, l’orizzonte, già non è più visibile. I diversi edifici del carcere circondano, alti e possenti, quel cortile. Entro in uno di questi. Lungo una serie di corridoi osservo campanelle pasquali e foto di persone omaggiate di rami di mimosa. C'è silenzio. Si apre la porta della sezione femminile dove, una ventina di donne circa, vivono. Si svegliano, si lavano, parlano, mangiano, si addormentano. Insomma trascorrono le giornate. Pensano. Piangono.

Ad un angolo del corridoio ci sono due statuette di donne. Entrambe con coloratissimi rosari di plastica al collo. Arancio e bianco fluorescente. Sono Sant'Anna e la Madonna Bambina. Il piano terra ha un soffitto. Un soffitto di rete metallica da cui si intravedono, al primo piano, le celle delle detenute. Che oggi sono protagoniste di un evento: la presentazione dei lavori svolti durante un laboratorio di scrittura per immagini appena conclusosi.

L’incontro è in una sala con alcuni vetri oscurati da una vernice giallognola stesa almeno vent'anni fa. Le detenute si accomodano, hanno un’età dai 20 ai 40 anni. Alcune sono formose, altre sottopeso. Altre ancora prosperose nel fisico ma dai lineamenti duri. La donna seduta accanto a me esprime subito un complimento sulle mie scarpe. Lei, magrolina, in jeans e scarpe da tennis, si mostra molto attenta ai dettagli femminili. Il laboratorio, promosso dal "Centro di documentazione e cultura delle donne", dalla Direzione del carcere di Bari con il contributo dell’Ufficio della Consigliera di Parità, ha avuto per titolo "Grafie del sé, raccontare e raccontarsi per immagini".

"I laboratori sono iniziative sempre ben accolte dalle detenute che in questo modo non si sentono trascurate", dichiara un’operatrice. In sala è distribuito un libretto su cui sono state stampate poesie, brevi racconti autobiografici, disegni e testi. Ed un album di collage. Un album in cui il "non verbale" è stato tradotto in immagini e foto ritagliate ed incollate. Un album in cui il proprio vissuto e vivente è, per la maggior parte di queste donne, reinterpretarsi con i capelli biondi. Indossare un abito attillato, tacchi vertiginosi. Porsi al centro di un foglio attorniate da animali esotici. O gioielli. O bei ragazzotti. O reinterpretarsi in scene come quella di una prostituta con sullo sfondo due individui loschi in auto (i personaggi hanno i visi delle detenute) ed una donna che telefona alla polizia (quest’ultima ha il viso di un personaggio dei fumetti). Sempre in queste pagine, comunque ed ovunque, lo sfondo è il cielo. Mai ambienti chiusi.

Il cielo incombe sull'immaginario della maggior parte di queste donne. Ma il buio, il nero, la sovrapposizione di due visi scuri (uno felice, l’altro triste) c'è. C'è in altri lavori. Le donne della sezione femminile del carcere di Bari vivono in un ambiente multiculturale. Ci sono detenute italiane, filippine, tedesche o di altra provenienza. Per questo in alcuni casi "alcune hanno dato voce alle altre", commentano le operatrici.

Le poesie sono infatti tradotte in più lingue e sono recitate ad alta voce in questa stanza dalle mattonelle indaco violetto. Sono recitate dalle autrici stesse con la potenza amplificatrice di chi, in un giorno qualsiasi, ha varcato quel cancello stravolgendo la propria esistenza: "Mai avrei pensato nella vita che sarei arrivata in questo posto da incubo". E vive l’abbrutimento fisico quale manifestazione di un anonimato di cui agogna il riscatto "La prima cosa che farò quando esco dal carcere sarà andare dall’estetista". O marchia di femminilità il dolore della detenzione, aggravandolo della colpa di aver abbandonato la famiglia: "Non voglio che la mia famiglia mi veda in questo brutto posto".

La declamazione dei propri sé è interrotta ad un certo punto da una donna. Che lamenta pubblicamente, e con voce sostenuta, il suo disagio. Un disagio, un’insofferenza che qui rintronano fortemente. Rintronano perché espressione di un sé sofferente che tenta in tutti i modi di andare oltre le mura. Mura di cinta. Termina l’incontro. E rientrando nell’Al di Là, mi saluta una frase scritta da una detenuta su un cartellone un po' sbiadito: "Natale è? DARE BUONE POSSIBILITA'".

1 commento:

Anonimo ha detto...

il carciere di bari è una topaia,è giusto ke ki sbaglia paghi ma ke almeno sconti la propria pena in un ambiente igienico,il sindaco emiliano dovrebbe visionare le celle e nn gli uffici e prendere provvedimenti immediati.è da incubo